25 marzo 2015

Intervista del 25 marzo 2015 a cura di Rosaria Di Ruvo, docente - evento organizzato presso la libreria "Luna di sabbia" di Trani

Quali sono gli ingredienti necessari per un buon libro? Ad esempio una trama convincente, una scrittura polisemantica, un racconto che risuoni nell'intimità del lettore anche una volta terminata la lettura, la possibilità di identificarsi con l'io narrante. Avendo letto il libro di Stefania, ho riscontrato tutti questi elementi. È un libro piccolo ma molto intenso sotto diversi punti di vista. È la storia di un io che si scopre a percepire la realtà, che scrive nel momento in cui la percepisce, riuscendo a restituire frammenti di verità che possono essere commoventi, drammatici, ironici. Recuperando una reminiscenza scolastica, si potrebbe parlare di epifanie joyciane. Questo io, che si guarda e che guarda la realtà, è appesantito dal disagio psichico, che gli consente di guadagnare una visione diversa rispetto a quella "normale", a volte distorcendo la realtà e creando un qualcosa che può risultare spaventoso. È un io che si è sottoposto ad un percorso finalizzato ad alleggerire il fardello della malattia mentale, passando per la psicoterapia, per le medicine, ed è stato capace di recuperare dal carbone della realtà la luce del diamante che brilla, ossia quell'attimo di verità che viene raccontato perfettamente. La novità di questo libro è il fatto di essere composto da tanti piccoli sketch che restituiscono un ritratto alla Picasso, attraversato da linee, da colori particolari che non rendono armonico il tutto, ma tendono invece a dividere. Stefania sceglie in ouverture la storia di Jacqueline Kennedy, che vi leggo. [Legge pag. 13]. Questo racconto è il primo di un gruppo che Stefania riunisce sotto il titolo di "La diaspora dei pezzi". In esso ho percepito la malattia mentale come proiettile che allontana dal sé la capacità di interpretare la realtà racchiusa nel cervello stesso. Porrei questa domanda a Stefania: quando parli di diaspora dei pezzi cosa intendi?
La diaspora dei pezzi è la metafora di un cervello che va in frantumi. Il capitolo raccoglie racconti che ruotano intorno ad un io a brandelli. C'è una visione olistica dell'io, che dunque non è semplicemente la somma dei pezzi. Infatti, come si evince dal racconto che Rosaria ha scelto, non basterebbe rimettere insieme i frantumi di testa per riavere l'uomo. Inizialmente la diaspora dei pezzi era il titolo del libro, che avevo scelto con l'intento di evocare la dimensione della malattia mentale. Successivamente l'editore ha ritenuto che un titolo simile fosse troppo complicato, e che il termine "diaspora" rimandasse troppo alla shoah. Mi ha suggerito così un titolo ispirato all'autoscatto che c'è in copertina. Abbiamo deciso di comune accordo di lasciare "La diaspora dei pezzi" come nome del primo capitolo, per introdurre il tema centrale del libro.

Il capitolo "La diaspora dei pezzi" è seguito dal capitolo "Le mie donne", che contiene una serie di riflessioni che partono da incontri con donne, per l'appunto; riflessioni dalle quali viene fuori la tua più delicata emotività. In esse credo che tutti i lettori possano riconoscersi. Stefania parla per lo più del rapporto con le sue psicoterapeute o psichiatre, descrive una paziente incontrata durante un ricovero in ospedale psichiatrico, e intesse un racconto intorno ad una voce. Quest’ultimo secondo me è molto bello e ve lo sottopongo. [Legge pag. 37]. Penso si tratti di un pezzo molto lirico. Ti chiederei a chi ti riferisci, poiché nel brano questa informazione sfugge.
Ti ringrazio per aver scelto questo brano, perché mi dà l'occasione di parlare della mia cantante lirica preferita, Barbara Bonney, un soprano leggero con un repertorio di lieder vastissimo. Il pezzo che hai letto si riferisce all'ascolto di uno di questi lieder, credo di Schumann. Sono stata follemente innamorata di questa donna, lo sono tutt'ora. Ho ascoltato praticamente tutto quello che ha cantato. Recentemente l'ho lasciata da parte, ma quando mi capita di sentire brani suoi io... ne muoio. È una delle mie donne preferite.

A proposito di innamoramento, ci sono altri momenti del libro che si intuiscono legati all'attesa di rivedere la psicoterapeuta. Anche in questi ci si ritrova. Ad esempio, vi leggerei un breve brano. [Legge pag. 26]. Chi non ha mai vissuto una sensazione del genere, a prescindere dalle situazioni e dalla dinamica che vanno a definirsi nel libro? Lo stesso dicasi per il seguente brano. [Legge pag. 29]. Anche questo lo abbiamo vissuto tutti... a prescindere dal trascorso della malattia mentale da cui scaturiscono le riflessioni. Vorrei che tu chiarissi: in te questi stati d'animo assumono echi un po' differenti. Puoi spiegarci di che altro sono fatte le sensazioni che esprimi?
Quanto alle fatiche ruminative [si riferisce a pag. 29], si tratta di un aspetto tipico degli stati maniacali, in cui c'è una accelerazione del pensiero fino alla fuga di idee, quindi una produzione incoercibile di pensieri che diventa alla lunga angosciosa. Se all'inizio ci si sente molto in forma, in grado di partorire riflessioni e spunti, quando l'attività cerebrale si incrementa, il buonumore sconfina in un profondo malessere. I sensi si acuiscono, cosicché ci si ritrova assediati da una valanga di percezioni dinanzi alle quali si soccombe. Si tratta di una condizione invalidante, che non consente una buona qualità di vita, e dunque va curata.

Il rapporto con la psicoterapeuta che tu aspettavi di vedere ti aiutava?
Sì, ma durava sempre troppo poco. Così come l'incontro con un innamorato... Vorremmo che non finisse mai. Nelle fasi di acuzie, tuttavia, non era l'ora di conversazione con la psicoterapeuta o con la psichiatra a risollevarmi. Era necessario un intervento farmacologico.

Trovo anche che tra i motivi per leggere il libro sia il tipo di scrittura, che avete potuto apprezzare. Sono peraltro interessanti alcune riflessioni che Stefania fa sull'uso del linguaggio. Ho trovato splendido il brano sui punti di sospensione, di cui il mondo degli sms o delle chat è pieno. Ve ne leggo qualche passaggio. [Legge pag. 30 e seguito]. C'è una metariflessione sull'utilizzo non solo del linguaggio, ma anche degli strumenti di cui il linguaggio si serve, come appunto la punteggiatura. Nel successivo gruppo di racconti, che si intitola "La consapevolezza", si fa un uso della sintassi molto particolare. C'è un altro passaggio che tengo molto a leggere. [Legge pag. 46]. A detta di Luigi Blasucci, professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, "c'è un uso magistrale della sintassi in sospensione e della parentesi accumulativa in un contesto tragico-struggente. Ecco che significa essere scrittori". Ti chiederei una cosa che per me come lettrice è importante sapere. Quanto è consapevole l'uso degli strumenti del linguaggio per ricreare una sensazione, un'idea, un immagine, e quanto invece la cosa ti viene spontanea?
Devo dire che in partenza la cosa mi viene abbastanza spontanea, nel senso che butto giù di getto la suggestione che ho in mente. Poi però c'è un lavoro di rifinitura che richiede molto tempo. Torno e ritorno sui pezzi un'infinità di volte, stando attenta alle cacofonie. Sono un'autodidatta, non ho mai fatto corsi di scrittura, quindi scrivo secondo il mio gusto, cercando quanto più possibile di realizzare quel che ho in mente. In mente ho un'idea e cerco, per quel che posso, di concretizzarla.

Mi interesserebbe sapere se c'è qualche scrittore, un particolare libro, una particolare forma di scrittura che ti ha influenzata nella formulazione dei pensieri.
I pezzi con incisi lunghi sono stati scritti in un periodo in cui leggevo Virginia Woolf. Il pezzo che hai scelto aveva un inciso ancora più lungo, che ho ridimensionato. Ma, fatta eccezione per pochi brani, credo che dal libro emerga una predilezione per la scrittura semplice. Ciò deriva anche dall'abitudine di scrivere articoli scientifici, caratterizzati da uno stile ridotto all'osso, da un linguaggio tecnico (se si vuole povero da un punto di vista lessicale), e dall'estrema attenzione nell'uso di ogni parola. I pezzi raccolti nel libro risalgono ad alcuni anni fa. Hanno trovato origine, per la gran parte, da un lavoro di psicoterapia intrapreso in una fase di malessere psichico, che ha avuto come risultato una copiosa produzione di scritti. Quando sono stata meglio, anni dopo, li ho rispolverati e ho cominciato a lavorarci su. Ho prima selezionato quelli che ritenevo interessanti. Dopodiché ho dovuto in buona parte riscriverli, poiché erano scaturiti da un periodo ricco di spunti ma povero di equilibrio. Durante questo esercizio, e nel periodo in cui ho integrato la raccolta con altri pezzi, ho smesso di leggere per paura di essere influenzata in qualche maniera nello stile. Ho ripreso a leggere adesso, poiché sono in una pausa produttiva. C'è una incompatibilità, per quanto mi riguarda, tra il leggere cose altrui e scrivere cose proprie.

A proposito di Virginia Woolf e del rapporto tra scrittura ed equilibrio, è interessante l'uso del dialogo, che emerge quando affronti in modo a te congeniale l'eterna dualità tra genio e follia, consentendo di compiere una riflessione letteraria su questa scrittrice, della quale conosciamo la vita, le fasi confusionali alternate a quelle di grande produttività, la fine. Tu scrivi: [Legge pag. 54 e seguito]. Ti chiedo quanto condividi o hai condiviso quello che metti in bocca alla tua psichiatra.
Devo dire che nelle fasi di acuzie è molto difficile scrivere (nel capitolo finale del libro, "Il distacco", sono raccolti alcuni esempi di pensieri scritti durante queste fasi). È nelle fasi intermedie, cioè in quelle ipomaniacali o di depressione lieve, che probabilmente si riesce a produrre cose buone. Proprio in quelle fasi sono riuscita a buttare giù gli scritti che sono raccolti nel libro. Ma, in accordo col pensiero della psichiatra, ho dovuto rimettere mano quasi a tutto. Ho dovuto, poiché nonostante contenessero tante idee, gli scritti erano poco equilibrati, erano troppo densi. Tutt'ora credo che un difetto del libro sia la densità delle emozioni narrate. Nei pezzi originali era ancora peggio. In una frase vi erano concetti affastellati l'uno sull'altro, senza un ordine. Quindi molti ho dovuto letteralmente riscriverli, e da una frase ne ho tirate fuori quattro.

C'è poi il capitolo "L'eccitazione dei sensi". Un brano mi ha colpito molto, quello dei collant [si riferisce a pag. 63 e seguito]. Tu entri in un negozio per acquistare un paio di collant. Cominci a guardarti attorno e a sentirti quasi subissata dai più svariati tipi di calza, facendo un elenco delle sensazioni legate ai tessuti, ai colori... Il che dà una forte idea di accumulo, a cui siamo abituati a tal punto da non rendercene più conto. È solo il tuo occhio che permette di uscire un attimo da questo contesto di accumulo e di riflettere su cosa davvero esso significhi. Non vi è solo l'accumulo materialistico, ma anche quello simbolico, poiché si parla di collant che fasciano cosce, che sono il "trait d'union tra ginocchi e vagina". E se vogliamo vi è un accumulo in termini pornografici, a cui siamo sottoposti in questa società, che ci propone una visione a pezzi, che ci istiga alla mercificazione dei corpi. Tutto ciò è reso in un racconto molto breve, al termine del quale esci da questo negozio ridendo e facendo percepire la pazzia, che non è di te che guardi, in questo caso, ma di chi vive in mezzo al consumismo.
Nel capitolo "L'eccitazione dei sensi" entriamo negli occhi di chi subisce l'attacco della malattia mentale e vede la realtà in modo diverso. Come quando scrivi degli oggetti. [Legge pag. 62]. È un modo diverso, spaventoso, di vedere la realtà. Mi sembra di capire che i passaggi che ho letto sono basati su esperienze percettive vere. Mi chiedo quindi come hai lavorato nella stesura, ossia come hai recuperato queste esperienze percettive rendendole poi per iscritto.
È stato facile in realtà, perché bastava uscire di casa in bicicletta per andare al lavoro e guardarsi attorno. Venivo sopraffatta da una valanga di segnali visivi. Mi ricordo che una volta vidi un palo per la segnaletica stradale divelto, che mi sconvolse. Avendo le immagini impresse nella memoria (le ho anche adesso) ho semplicemente scritto ciò che ricordavo. Ho elencato i colori, le ammaccature, il luridume. Ho descritto ciò che avevo perfettamente davanti agli occhi.

Che sono occhi diversi...
È come se d'improvviso i paraocchi che tutti noi abbiamo, che sono quelli che ci aiutano a fare una cernita tra i segnali che ci giungono dall'esterno, non ci fossero più e io venissi assalita da una quantità di informazioni enorme, che non riesco a gestire. Da ciò scaturisce una sensazione di malessere vero e proprio.

"Agli arresti" è il penultimo gruppo di racconti prima de "Il salto". C'è un racconto dove l'io narrante descrive il suo modo di percepire le medicine. Siamo nel contesto di un ospedale psichiatrico. Ne leggo un passo. [Legge pag. 75]. Chi non vive da vicino il disagio psichico ha difficoltà a capire il senso della cura farmacologica, accanto all'utilizzo della parola. Eppure le medicine sono fondamentali in alcuni casi per raggiungere un equilibrio, che cambia poi da momento a momento nella vita di una persona. Ci racconti la tua opinione? Cosa pensi degli ospedali psichiatrici e che cosa ti ha aiutato di più a ritrovare l'equilibrio: la parola? L'ospedale psichiatrico? Le medicine?
Le medicine non devono prenderle tutti coloro che hanno un disagio psichico e psicologico. Ci sono persone per le quali è sufficiente un lavoro di psicoterapia. Quindi, quella della terapia farmacologica non è una realtà che riguarda tutti. I disturbi d'ansia, le depressioni sono diffusissimi e non si accompagnano necessariamente all'uso delle medicine. Quanto agli ospedali psichiatrici, credo siano l'ultima spiaggia, e indubbiamente servono in circostanze nelle quali non vi sono altre soluzioni. Ci sono stati momenti, durante la mia malattia, in cui ho desiderato di essere ricoverata poiché mi rendevo conto di non stare bene e di trovarmi in una condizione di pericolo. Al contrario, altre volte non mi rendevo conto della gravità del mio malessere, e in ospedale psichiatrico non ci volevo mettere piede, o comunque volevo venirne via.

So che tu dici che la terapia è un vestito...
...che va cucito addosso al paziente. Aggiungo che in questi casi la cura farmacologica è propedeutica alla psicoterapia. Si tratta di sedare i sintomi per poter lavorare sul disagio che sta a monte. Se i sintomi non sono controllati e sono importanti, non si riesce a lavorare sull'origine del malessere.

Nel tuo libro c'è il punto di vista del paziente. Un conto è lo psichiatra che racconta, un conto è chi vive sulla propria pelle la malattia e la cura. Quindi è un'esperienza, la tua, che suppongo abbia interessato i professionisti del settore. Hai riscontri in merito? E poi un'altra domanda: non hai paura che in questa maniera la tua possa rimanere un'esperienza letteraria di nicchia, legata esclusivamente alla malattia, quando abbiamo visto che c'è ben altro, e che il tuo libro è davvero per tutti?
I feedback dagli psichiatri sono stati buoni. Ho fatto un incontro a Milano, dove ero intervistata dal Prof. Angelo Cocchi, past president della Società Italiana di Psichiatria, che ha espresso un'opinione positiva sul libro, sottolineando l'aspetto letterario, oltre che quello legato all'esperienza personale. L'incontro di Milano era con parenti di persone con disagio psichico e ho respirato un clima di emozione, poiché ognuno cercava nel mio libro la chiave di lettura per l'esperienza dei propri cari. L'incontro è stato a tratti difficile, mi sono state sottoposte domande molto specifiche, alle quali ho fatto fatica a rispondere. Ma è stata un'esperienza arricchente. Per quanto riguarda il fatto che il libro sia confinato nell'ambito delle testimonianze sulla malattia mentale, questo è un rischio, certo, ma la cosa mi sta anche aiutando nella promozione.

Penso che ci siano davvero tutti gli elementi per incuriosirvi. Terminerei questo incontro spendendo una parola sull'editore, perché se lo merita. Tutti quelli che leggono tanto e in una certa maniera, sanno quanto è difficile entrare in una libreria e trovare qualcosa di diverso dal piattume attuale. Quindi credo che la scelta di pubblicare un libro di questo genere sia coraggiosa. Bisogna riconoscerlo e, se fosse qui, ringrazierei Sergio Tani, l'editore di Stefania, della casa editrice Books & Company. Vuoi aggiungere qualcosa?
Con Sergio Tani siamo diventati amici. Mi sta seguendo nella mia "tournee". Mi chiede quotidianamente come va, come mi sento, mi incoraggia. Quando cercavo di pubblicare, ho mandato il manoscritto a case editrici piccole, medie e grandi. A lui l'ho inviato previa telefonata. Gli ho detto: "Sono un'esordiente, ho un manoscritto, le interessa leggerlo?" Lui mi ha risposto: "Guardi siamo subissati..." E da lì mi ha parlato delle condizioni in cui versa l'editoria piccola e media in Italia. "Comunque me lo mandi", ha aggiunto. Così gliel'ho spedito per mail. Due ore dopo mi ha chiamata pieno di curiosità. Ha voluto subito sapere se gli scritti fossero autobiografici. Da lì è scoccata la scintilla e nel giro di poco Sergio Tani ha deciso di pubblicare il libro. Il lavoro di editing fatto con lui è stato importante. Mi ha dato alcune indicazioni che si sono poi rivelate molto azzeccate, ad esempio quella di scrivere una postfazione, che molti di coloro che leggono il libro trovano di conforto. Gli sono grata per l'investimento che ha fatto e per la fiducia che ha riposto in me.

Chiuderei questo momento citando Bukowski, che ci aveva visto giusto in termini di editoria. Dice: "Se pensi che ci sono in giro pochi scrittori bravi, allora, amico mio, cerca di trovarti un bravo editore. I bravi editori sono più rari dei bravi scrittori, e se si considera che gli editori sono responsabili di quello che leggiamo, allora ci si può rendere conto dell'inferno letterario dentro al quale siamo costretti a vivere."