A cura del Prof. Angelo Cocchi, Presidente AIPP Associazione Italiana Interventi Precoci nelle Psicosi - evento organizzato dall'Associazione La Tartavela Onlus presso La casa delle Associazioni e del Volontariato di Zona 1, Milano
[Prof. Angelo Cocchi] Ringrazio molto Stefania per essere qui. Il suo libro è scritto molto bene ed è molto bello. È un piacere leggerlo. Usualmente non mi dedico tanto alla letteratura che porta esperienze personali. Ma questo libro ve lo consiglio perché scorre benissimo, contiene suggestioni nelle quali credo che tutti ci ritroviamo, chi ha sperimentato momenti di difficoltà , chi ha sperimentato malattie, chi non le ha sperimentate ma ne è stato testimone. Il messaggio che dà è concreto, è un messaggio di speranza, ma non di speranza vaga e generica. Suggerisce un atteggiamento positivo nei confronti delle vicende della vita, vissute attraverso la griglia della malattia. Vorrei fare i complimenti a Stefania per aver trovato la forza, la voglia di scrivere questo libro e di cominciare a parlarne in pubblico. Chi lo leggerà si accorgerà che una tensione lo attraversa tutto - certo le parti che ha letto sono emozionanti e l'emozione ottenebra un po' la valutazione critica. Stefania, perché hai pensato di scrivere questo libro, e cosa ha rappresentato per te?
Ho deciso di cercare un editore perché ho ritenuto che quello che avevo scritto potesse essere di interesse comune. Il libro può essere rivolto sia ai malati, sia ai parenti, sia alle persone "normali" o a coloro che non sono coinvolti nella problematica specifica, poiché probabilmente contiene spunti di riflessione validi per tutti. Cosa ne è venuto a me personalmente? Ho ricomposto il collage di quegli anni, ho rimesso ordine nelle memorie, ho ridato dignità a periodi che avevo sepolto in un dimenticatoio, mi sono liberata di un peso.
[Prof. Angelo Cocchi] Anche se aiutasse una sola persona il libro sarebbe già prezioso. Ma credo che potrebbe aiutarne più d’una nel capire bene, nel combattere la battaglia contro la malattia, che può essere vinta, come nel caso di tanti altri disturbi. Ho colto anche un filo di bontà , un atteggiamento di fiducia verso le persone e verso le circostanze, non un atteggiamento criticamente astioso. Cosa ne pensi?
Credo che questo atteggiamento derivi da una presa di distanza dalla malattia. Dopo che si è stati bene per anni, si ha la forza di vedere il bicchiere mezzo pieno. Anche il rapporto con la psicoterapeuta, quello che è stato all’origine della produzione degli scritti, lo vedo ora in chiave positiva, nonostante all’epoca il distacco sia stato doloroso. Da esso è infatti nata la presente esperienza del libro.
[Prof. Angelo Cocchi] Parli di tuo marito, dei tuoi figli. Ti hanno sostenuta nella operazione di dare coerenza ai pensieri contenuti nel libro? Cosa ne pensano dell’idea di riordinare, di legare tra di loro gli elaborati, di pubblicarli?
Ho due figli, uno di otto anni e mezzo e l'altra di undici anni e mezzo. Il più piccolo probabilmente non ha ancora l'età adatta per capire quel che ho fatto. L'altra invece è molto più partecipe. Quanto a mio marito... Il libro è stato pubblicato in dicembre e gli ultimi pezzi sono stati scritti in novembre. Mi vedeva per ore al computer, oppure mi trovava a scrivere sul telefonino - cosa che facevo quando avevo idee da appuntarmi -, e non capiva. È stato uno degli ultimi a leggere le bozze e, dopo che l’ha fatto, mi ha dato subito conforto e massima disponibilità . Da quel momento mi ha seguita in tutti i passi che hanno preceduto e seguito la pubblicazione.
[Prof. Angelo Cocchi] L'ultima frase è "Godo della compagnia delle persone. Godo del cibo, del sonno, della fatica, delle ricompense". Ditemi se non è un libro che incita all'ottimismo, alla speranza, alla positività .
[Pubblico] Ti chiedo due cose: cosa significa "presa di distanza dalla malattia"? Cosa hai fatto concretamente?
E' passato tanto tempo...
[Pubblico] E cosa intendi dire per "pellicola"? (fa riferimento al pezzo n. 4 di pag. 51, capitolo La consapevolezza).
Alcuni specialisti mi hanno spiegato che quello di percepire la pelle come una membrana molto, troppo sottile, può essere un tratto borderline. La pelle è fondamentale poiché ci separa dal resto del mondo e definisce la nostra individualità . Se la pelle si sfalda, non vi è più distinzione tra il dentro (il conscio e l'inconscio) e il fuori (il dato di realtà ). Ho avuto episodi di autolesionismo grave in due periodi della mia vita, quando avevo sedici anni e da adulta. Il fatto di accanirmi sulla pelle era una maniera per testarne l'esistenza e la resistenza. Se brucio questa pelle o la taglio è perché questa pelle esiste. E finché la pelle esiste io possiedo un'individualità .
[Pubblico] Cosa intenti per abdicare [fa riferimento al pezzo n. 1 di pag. 45, capitolo La consapevolezza] e qual è il senso della liberazione?
Essere madre e moglie, se da un lato è stato fondamentale per il raggiungimento del mio attuale stato di benessere, dall'altro nei momenti di acuzie è stato difficilissimo. Mi riferisco soprattutto all'essere madre. La parola "abdicare" equivale a rinunciare al ruolo, e dunque all'essere sconfitti, è un ritirarsi nel proprio mondo o addirittura andarsene via da questa Terra...
[Pubblico] La "liberazione" per te è stata la presa di coscienza della tua malattia? Cos'è la "liberazione"?
Gli ingredienti fondamentali per imparare a convivere con la malattia, e dunque per giungere a uno stato di "liberazione", sono tre: il sostegno familiare e amicale, uno specialista col quale si è in sintonia e una terapia farmacologica azzeccata da mantenere, poiché l'errore massimo è quello di dirsi, quando si sta finalmente meglio, "allora posso fare a meno delle medicine", eliminandole senza l'aiuto dello specialista. Così, infatti, si ricade peggio di prima. Sì, la "liberazione" è presa di coscienza e di distanza dalla malattia.
[Pubblico] Da quanti anni stai affrontando la malattia mentale?
La prima crisi depressiva l'ho avuta a sei anni. Non mi sono curata mai, neanche a sedici, quando ho avuto l'episodio di autolesionismo grave di cui ho detto. All'epoca i miei riconoscevano la mia sofferenza ma non sapevano come affrontarla. Ho cominciato a curarmi a trent'anni, e quindi ho vissuto gli episodi di autolesionismo senza farmaci, senza l'aiuto fattivo di uno specialista. Stesso dicasi per le depressioni, profonde, che duravano mesi e mesi e mi conducevano alla paralisi motoria. Tutto ciò è stato durissimo da sopportare, ma in compenso mi ha consentito di portare a termine due gravidanze senza i rischi di una terapia farmacologica in atto, o sospesa apposta. Immediatamente dopo che è nato il mio secondo figlio ho incominciato a curarmi.
[Pubblico] Che risposta hai dato al tuo dolore, per sommi capi, lasciando stare la terapia farmacologica?
Alle volte un percorso interiore non è possibile senza l'ausilio dei farmaci. È come dire che per fare un'operazione, l'anestetico è indispensabile. Ci vuole prima l'anestetico, poi si può ragionare sui motivi del dolore. Dopo il percorso dal quale è scaturito il libro, non ho più ripreso la psicoterapia. Ci ho provato una volta, ma mi ha destabilizzata nonostante assumessi una terapia. Il lavoro di indagine personale fatto con uno specialista, dove magari si va più in profondità , ancora non riesco a sostenerlo. Ho parlato di dolore in questo libro, ma allo stato attuale non posso venire a contatto col dolore se non per periodi brevi.
[Pubblico, parla uno psichiatra] Le associazioni dei familiari hanno fatto passi da gigante negli ultimi quindici o venti anni, nel senso che una testimonianza di questo genere in altri tempi non sarebbe stata ascoltata. Adesso le associazioni dei familiari e i servizi hanno trovato una sintonia di intenti tale che il mondo interno di chi ha disagio psichico può emergere ed essere accettato. Mi è piaciuto molto che Stefania abbia questo rapporto duplice, dentro-fuori, rispetto alla terapia e al suo malessere, che è poi la dialettica che credo caratterizzi ognuno di noi. Il fatto di archiviare la parte malata è veramente importante. Noi, in realtà , della sofferenza e della malattia non sappiamo nulla. Sappiamo ciò che il paziente ci dice, vediamo come si comporta, possiamo sentire le nostre emozioni, cerchiamo di codificare il tutto. Il fatto che Stefania abbia archiviato il suo vissuto le ha consentito di fare questo dentro-fuori e di mettere in un libro, che è un'ulteriore archiviazione, la sua esperienza. Un altro elemento potrebbe essere quello di pensare al futuro. Una domanda è se è utile o non è utile dare un nome a questa sofferenza e come comunicare ai bambini il proprio stato d'animo.
Credo sia molto utile. Dare un nome alle cose equivale a leggerle, sebbene adoperando un filtro che è assolutamente personale. Quanto ai figli, ci si può parlare sempre a posteriori. Nel momento dell'acuzie purtroppo subiscono il malessere, rispetto al quale sono indifesi. Mia figlia ha vissuto il periodo peggiore della mia malattia. Attualmente la politica della famiglia è quella di dire: "È successo, ma andiamo avanti, ripartiamo di nuovo". Mia figlia sta sempre attenta che io prenda i farmaci. Arriverà il momento in cui parleremo in maniera aperta dei fatti accaduti.
[Dott. Gianfranco Mascherpa, Presidente de La Tartavela Onlus] "La malattia mi toglie il senno", "la ragione fiaccata dalla sofferenza diventa follia". La gran parte delle persone con disturbo psichico non soffre di un ritardo intellettivo, dunque è consapevole della propria condizione di svantaggio. A un certo punto nella tua storia, pur essendo consapevole, non riuscivi a elaborare razionalmente la sofferenza e ad evitare che evolvesse in follia. Ho percepito bene?
La ragione si piega sotto la sofferenza troppo grande, certe volte si spezza.
[Dott. Gianfranco Mascherpa, Presidente de La Tartavela Onlus] "L'autodistruzione era poderosa spinta alla sopravivenza per N., era lo scotto da pagare per continuare a esistere". E prima tu riferisci di aver ingoiato biglie, pezzi di posate di plastica, sapone...
Quando la sofferenza psichica diventa troppo forte, uno dei sistemi per sedarla è quello di farsi del male fisico. Il male fisico distoglie l'attenzione dal male psichico. Per tre volte ho fatto la lavanda gastrica per ingestione di farmaci, e tutte le tre volte non avevo alcuna intenzione di morire. Dovevo liberarmi di una parte di me. Dovevo, soffrendo fisicamente, liberarmi della parte che mi faceva soffrire psichicamente.
[Pubblico] Nella tua situazione ci sono tre elementi. La mia domanda è: quanto è importante la presenza della famiglia e come l'hai vissuta?
Col senno di poi devo ringraziare infinitamente i parenti che mi sono stati vicini. Ma quando stavo male percepivo il familiare come una presenza scomoda. Mi sentivo nel pieno delle mie facoltà e mi chiedevo: "Perché mai questa persona parla con il mio medico? Con il mio medico devo parlarci io!". Quelle dei parenti mi sembravano ingerenze. In tutte le maniere ho cercato di evitare che mio marito venisse a conoscenza di alcuni fatti e talvolta gli ho mentito. Quando si sta male ci si sente perseguitati, anche dai parenti. È dopo che si riconosce l'importanza dell'aiuto che da essi proviene.
[Pubblico] Ma c'era in te una consapevolezza.
Sì, io non ho mai perso completamente consapevolezza, tranne forse durante uno dei ricoveri, di cui serbo poca memoria.
[Pubblico] Voglio ringraziare Stefania perché ha fatto emergere un problema molto grande, quello delle voci. Io credo che la ricerca dovrebbe indirizzarsi verso la separazione tra un dialogo che porta alla schizofrenia e un dialogo interno che possa portare alla consapevolezza di se stessi.
Credo che se si sentono le voci e queste non producono sofferenza, si abbia il diritto di conservarle. Lo spartiacque è dato dalla sofferenza che si accompagna con queste dispercezioni. E dove c'è la sofferenza, per fortuna si può intervenire.