18 aprile 2015

A cura dei Dott. Pietro Paganelli, Franca Righi e Augusto Gentili - evento organizzato da ESCOMARTE e AUSL di Reggio Emilia presso la Biblioteca Scientifica "Carlo Livi" di Reggio Emilia

[Dott. Franca Righi] Grazie a Stefania, perché ci dà l'opportunità di affrontare un tema, quello della sofferenza mentale, che ha un peso enorme per chi ne è afflitto. Da anni conduco un laboratorio di scrittura, e mi sento veramente felice di poter presentare insieme al dott. Gentili, che è uno psichiatra con formazione psicoanalitica junghiana, questo libro, che è davvero importante, perché non racconta cos'è la malattia mentale dal punto di vista della descrizione dei sintomi, ma offre un vissuto. È come se l'autrice ci volesse intrattenere nel viaggio attraverso le tappe che l’hanno portata verso la guarigione.
La letteratura scientifica da molti anni ormai si preoccupa, sviluppa e promuove l'autobiografia come significativa tecnica della cura di sé. Un piccolo richiamo all'importanza della scrittura va fatto. Che sia importante scrivere lo sanno tutti, se non altro perché la scrittura è uno dei mezzi espressivi più potenti a nostra disposizione.
Cosa cura lo scrivere di sé? Mi viene in mente un'intervista che Primo Levi rilasciò a Rai Storia. Raccontò di aver sentito il bisogno di scrivere dell’esperienza del lager per gettarla fuori. Disse di essersi sentito più leggero. Ecco che, quando sono stati vissuti dei traumi, la scrittura, soprattutto l'autobiografia, serve, aiuta, è come un farmaco, è lenitiva. Scrivere sottrae energia alla sofferenza. È come se andassimo a ripescare nell'ombra le parti ferite, dando loro un nome e, così facendo, contribuissimo a dare un significato coerente alla nostra storia e a spiegare i motivi di quel che ci è accaduto.
Altro che passività, altro che impotenza! Chi scrive si mette al centro, guida se stesso nella narrazione e, nel momento in cui lo fa, riconquista non solo l’autonomia, ma anche la parola, e quindi una grande dignità.
Tutte queste cose le ho colte nel libro di Stefania, nero su bianco. Perché mi è piaciuto e va letto? Perché è un libro sincero. Contiene parole di verità che scavano nelle regioni più profonde della psiche, regioni che Stefania ci mostra. Vi è una attenzione al linguaggio straordinaria. Vi è una corrente emozionale folle in questo libro. E’ piena di valori la scrittura di Stefania. Tutte cose preziose, queste - soprattutto per gli operatori che accompagnano i pazienti nella sofferenza -, perché spesso taciute. Grazie a questa scrittura, siamo vicino alle parole di Stefania e possiamo sviluppare una capacità empatica.
Sarei pronta per riflettere un attimo su alcuni punti che mi hanno particolarmente interessato. Intanto il titolo, che è emblematico. La citazione di Gide, poi, sembra dire che la sofferenza mentale, quindi la follia, dialoga con la ragione. Ciò vuol dire che la malattia mentale non è qualcosa di al di là dell'umano. Proprio questo mistero Stefania cerca di svelare attraverso la sua stessa esperienza di dolore. 
[...]
Mi ha impressionato il fatto che il libro si apra con il ricordo di un fotogramma. È il famoso filmino di Zapruder che riprende l'assassinio di J.F. Kennedy a Dallas. Il cervello si spappola. Mi sono detta: ma la malattia, l'esplosione del cervello, è un nuovo inizio?
Ogni volta che mi ha assalita, la malattia ha fatto terra bruciata dentro di me. Dopo ogni crisi ho avuto la sensazione che qualcosa nel mio animo si fosse inevitabilmente incrinato, che non sarei più tornata uguale a prima. Ed in effetti così è successo. Ad ogni assalto la malattia ha lasciato cicatrici permanenti, tra cui un “memento mori” che mai mi abbandona, impedendomi di trovare gioia in certe piccole cose della vita, che percepisco – è più forte di me – come uno spreco di tempo. Ad ogni modo queste distruzioni interiori hanno comportato un’opera successiva di parziale ricostruzione e, che mi piacesse o no, mi hanno posta di fronte alla necessità di un nuovo inizio, spesso molto faticoso.
Tuttavia, mi chiedo se nella mia esperienza personale sia stata la malattia a sancire un nuovo inizio, o piuttosto non sia stato un nuovo inizio, e il lutto per una fase della vita conclusasi, a scatenare la malattia. Mi spiego meglio. Andando a ritroso tra le depressioni che mi hanno lasciata più malconcia, ricordo quella seguita alla nascita del mio figlio minore, quella seguita alla nascita della mia figlia maggiore, quella seguita alla laurea, quella seguita al primo rapporto con un uomo, quella seguita all'inizio del liceo. Sembra dunque che a scatenare le mie crisi sia stato il malessere legato alla conclusione di un’esperienza passata e al conseguente inizio di una nuova.
Da anni ormai, grazie alle cure, la malattia mi dà tregua, e rivedendo le cose da una prospettiva di guadagnato benessere, devo dire che tutto quel dolore a qualcosa è valso. Le conseguenze più immediate sono l’approfondimento nella capacità di introspezione, l’amore aumentato per la vita e per gli altri esseri umani, la sospensione di certe forme di giudizio morale. Non ultima, tra queste conseguenze, è la stesura del libro.

[Dott. Franca Righi] Che la malattia mentale comporti una frattura, dagli scritti di Stefania si evince chiaramente.

[Dott. Augusto Gentili] Quindi anche se l'esperienza con la psicoterapeuta non si è conclusa felicemente, per lei è stato utile questo tipo di incontro, perché ha creato un'effervescenza, una miniera interna...
Subito difficilissima da gestire perché c'è stato un exploit...

[Dott. Augusto Gentili] Però è rimasta la speranza...
Certo, a distanza di anni ho capito l'importanza di quel rapporto. Gli esiti positivi sono arrivati dopo tempo. I benefici di quel lavoro di psicoterapia sono stati notevoli.

[Dott. Augusto Gentili] Il contatto con la psicoterapeuta ha innescato in lei una riflessione, una introspezione che dopo ha potuto tesaurizzare nel tempo.
Mi rimane anche il cruccio di non averla più rivista, di non averle potuto dire di persona che il lavoro è andato a buon fine.

[Dott. Augusto Gentili] Lei parla della sua psicoterapeuta in modo forte, le dà della "puttana", le lascia intendere "io la pago, dunque lei è a mia disposizione"... Ecco, io faccio lo psicoterapeuta e su questo un po' dissento [risata generale]. Mi fa venire in mente un mio paziente che mi telefonava e diceva: "Dottore oggi non posso venire, comunque non si preoccupi, pago la seduta." Alla terza volta gli ho detto: "No guardi, mi dispiace, io non sono qui solo perché lei mi paga".
Quanto alla conclusione del rapporto, tuttavia, la scelta della sua psicoterapeuta di non incontrarla un'ultima volta, mi lascia perplesso. Nel nostro lavoro è importante la restituzione. Se il rapporto si interrompe - perché non necessariamente si può lavorare bene con chi ha una relazione transferale importante, che può essere anche negativa, oppure perché ci sono persone che hanno una modalità introvertita e non riescono a stabilire una sintonia con chi ha una modalità estrovertita - la restituzione rimane comunque fondamentale. Lo psicoterapeuta riassume quale è stato il percorso e restituisce al paziente quella che è la propria riflessione, il proprio orientamento. Altrimenti la cosa rischia di rimanere in sospeso.
[...]
Io sono un analista junghiano, e Jung sottolinea molto spesso che la psiche non è una unità indivisibile, ma un insieme di parti più o meno divisibili (si veda a questo proposito la teoria dei complessi). Quindi credo che la sua sia una bella intuizione. A questo proposito, lei parla molto di questo equilibrio di Nash, me lo può spiegare?
Le condizioni necessarie per l'esistenza di un equilibrio di Nash prevedono la partecipazione al gioco di parti razionali - che cioè perseguono il proprio massimo profitto - e non cooperative. È pertanto interessante paragonare la mente divisa ad una situazione di gioco di questo tipo. Il problema principale sta nel fatto che le parti non collaborano l'una con l'altra. Vi è una totale incomunicabilità tra di esse.

[Dott. Augusto Gentili] Ogni parte è autonoma...
Proprio così. L'equilibrio è raggiunto se nessuna delle parti, presa singolarmente, ha interesse a modificare le proprie scelte di gioco, ferme restando quelle delle altre. Questo equilibrio, nel caso si venga a creare, potrebbe ben rappresentare uno stato stazionario di follia.

[Dott. Augusto Gentili] Il libro è una profonda testimonianza della sofferenza. Io nel leggerlo mi sono sentito un po' diviso tra la mia attività di psichiatra, quindi tra l'aspetto clinico, e l'aspetto invece di un lettore incuriosito. Il tema della prima parte è quello della rabbia, secondo me. A volte anche nel modo, nello stile, il libro diventa molto penetrante. L'accenno che si fa all'uomo ("con la testa esplosa, nella diaspora dei pezzi, alcuni ancora penzolanti come feti semidivelti, altri già sideralmente lontani e chiusi nel silenzio come dissidenti al confino") è costruito tramite immagini forti. I tedeschi fanno una distinzione tra il corpo anatomico (Koerper) e la tensione che trascende il nostro corpo nel senso della materia, nel senso della pesantezza (Leib). In questa prima parte c'è un corpo più "materia", un corpo esterno, non un corpo portato, che è il mio corpo...
Ho alcune difficoltà col mio corpo, in effetti...

[Dott. Augusto Gentili] Mi pare che questa rabbia nella parte finale si trasformi in una domanda d'amore.

[Dott. Franca Righi] A questo proposito mi è venuto di riflettere sul tema della solitudine. Il bisogno d'amore è l'interfaccia di una sofferenza che nasce dal fatto che il nostro io si costruisce nella relazione col mondo. E visto che si parla di un mondo per così dire "parallelo" - il reparto di diagnosi e cura, i deliri, la sofferenza, l'abbandono del terapeuta - allora mi sono chiesta: insomma, cosa possiamo dire a un soggetto che sta male, Stefania? Cosa possiamo offrire? La solitudine è immensa in certe fasi della nostra vita...
Credo, come è stato già detto, che la cura stia nell'amore. In quale modalità, dipende da individuo a individuo. Nella mia esperienza personale, è stato ed è tutt'ora cruciale il ruolo di alcune figure di donna. Non credo vi sia, da parte mia, la necessità di ritrovare l'affetto materno, che già ho, quanto piuttosto il bisogno di proiettarmi in donne alle quali riconosco un femminilità forte, una femminilità che in me, nonostante abbia procreato, sento abortita. La mia solitudine deriva specialmente dall'amore frustrato per queste donne, alle quali, soprattutto durante la malattia, ho chiesto, in cambio del mio, un coinvolgimento emotivo talmente profondo e totalizzante da allontanarle. L'incapacità di autodefinirmi in quanto donna, ed estremizzando ancor più, di autodefinirmi in quanto essere umano in carne ed ossa, implica una ricerca di conferme provenienti dall'esterno, e nello specifico da queste figure di riferimento. Emblematico il rapporto con la mia psicoterapeuta. Come è raccontato nella Postfazione, questo nodo cruciale nella mia vita è in gran parte risolto grazie all'amicizia di una donna bella e intelligente, che non ha avuto paura delle mie richieste d'affetto, si è lasciata amare e, in una sorta di psicoterapia a due, tuttora mi incita a riconoscere i molteplici aspetti della mia femminilità.

[Dott. Pietro Paganelli] Cosa intende per "ho alcune difficoltà col mio corpo"?
Anche questo è un nodo solo parzialmente risolto. L'autolesionismo, che contraddistingue la mia esperienza, va visto proprio nei termini di una ricerca dei confini del mio corpo. Se il mio corpo ha dei confini, allora vuol dire che esiste. Tuttora, faccio fatica a gestire questo problema. Lo tengo a bada con i farmaci.

[Dott. Franca Righi] Però posso aggiungere che soprattutto alla fine del libro la cosa splendida è che lei parla della bellezza in quanto nutrimento... Sembra una porta verso Dio. Allora le chiedo: quanto importante è la dimensione spirituale ed estetica in una esperienza così forte di dolore?
Mi nutro quotidianamente delle bellezze del mondo: dell'animo gentile di un parente e di un amico, della magnificenza della natura, del piacere della musica, della lettura o di un buon film. Tutto ciò mi è indispensabile per vivere, specialmente a causa del "memento mori" che mi porto addosso come un fardello.
Tuttavia, nelle fasi di acuzie della depressione, i piaceri spirituali mi sono preclusi e vanno evitati, poiché d'improvviso mi parlano di angoscia e di morte. La Messa in Si minore di Bach che mi lascia estasiata e scossa ogni volta che l'ascolto, Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut che tanto mi ha intrigata, Le due inglesi di Truffault che ho rivisto tante volte, diventano cosa pericolosa e dunque proibita, perché intrisi di una vitalità il cui senso profondo viene in me completamente meno. E, cosa banale, ma dolorosissima, sono partoriti da menti che hanno cessato di vivere. Se da un lato mi consola di essere fatta - in quanto essere umano - della stessa pasta di questi grandi, dall'altro l'idea della fine loro e mia si fa insostenibile. Per questo motivo - la cosa è buffa - quando sto così male posso leggere solo manualistica o saggistica scritta da autori viventi, purché non contenga a sua volta riferimenti a persone venute a mancare. Mi ricordo che durante l'ultima importante depressione, seguita alla nascita del secondo figlio, trovai tanto conforto in un piccolo saggio di Asha Philips, che si chiama "I no che aiutano a crescere", poiché era così pieno di buon senso e di buoni consigli da alleggerire il mio stato di angoscia. Certamente non mi aiuta, durante le depressioni, la mancanza di un credo religioso.
Durante le fasi psicotiche (maniacali) vi è invece un'espansione della ricerca del piacere (dell'anima e del corpo) e della bellezza. Divengo ingorda di ascolti, di letture, di visioni. Peccato che la cosa duri poco e che evolva in un opprimente senso di troppo pieno, che mi rende infine agitata e irascibile. La dimensione spirituale ed estetica diviene dunque un'arma a doppio taglio, qualcosa che cerco spasmodicamente ma che al tempo stesso mi turba nel profondo.
Per concludere, il ricorso ad una dimensione spirituale ed estetica mi è stato di aiuto nella fase di rielaborazione dei periodi bui della mia vita. In questa fase, la ricerca della pace interiore e della bellezza è stata equilibrata e ha portato i suoi frutti. Nelle fasi di malessere, invece, vi era o il niente o il troppo, entrambi i quali hanno rafforzato il mio stato di sofferenza.

[Dal pubblico] È quel salto di cui si parla nel libro. È un salto sul limitare del quale noi ci tratteniamo. Stefania invece lo fa. Ed ecco che la bellezza è a un niente da essere orrore. Ispira tanta simpatia Stefania, perché è come se lottasse molto lucidamente con un'altra se stessa che le fa correre tanti rischi, la fa balzare al di là del confine della normalità. È una lezione che lei dà anche a chi tratta la malattia. In particolare, in che modo la scrittura l'ha aiutata?
Mi ha pacificata con tanti aspetti della vita che mi davano inquietudine. Tuttavia questo è avvenuto grazie anche ai farmaci. Dalla scrittura è derivata una presa di consapevolezza, ma il tramite è stato la cura.

[Dott. Franca Righi] C'è una presa di distanza dalla malattia...
La presa di distanza è stata possibile dopo tempo, riprendendo in mano il materiale scritto anni addietro.

[Dott. Franca Righi] Mi viene da dire che c'è stata una espulsione del dolore.

[Dott. Augusto Gentili] Non si tratta solo di espulsione, di evacuazione, ma anche di rielaborazione...
L'evacuazione è avvenuta durante il rapporto di psicoterapia, la presa di coscienza invece c'è stata dopo anni.

[Dott. Franca Righi] C'è una capacità ortografica, grafica, logica che manca negli elaborati dei pazienti che da dieci anni conosco e che scrivono nei momenti più disparati della loro sofferenza. In quel caso non c'è elaborazione del dolore.

[Dott. Augusto Gentili] Per mettere le emozioni in una pagina, queste vanno circoscritte. Questo ha una funzione contenitiva nei confronti dell'autore.

[Dott. Pietro Paganelli] Leggiamo questo libro con piacere perché Stefania è creativa, e la sua creatività mette in comunicazione il suo scritto con noi. Occorre una base culturale per esprimersi come Stefania fa. Il libro di Stefania è costruito. Come lei ci ha raccontato, ha dapprima buttato giù i contenuti e poi ha strutturato il tutto secondo un progetto.

[Dott. Augusto Gentili] Mi è piaciuto molto il pezzo che racconta di quando è andata a comprare un paio di collant per sua figlia... [ne legge una parte, segue risata generale]. Complimenti. E aggiungo che ci vuole coraggio per scrivere queste cose, e che la sua è una testimonianza che è utile non solo per lei, ma anche per le persone che avranno l'occasione di leggere il libro, che io raccomanderò.