Intervista del 24 aprile 2015 a cura di Marta Celio, poetessa e Anna Gatti, presidente A.I.T.Sa.M. Padova - evento organizzato da A.I.T.Sa.M. Padova presso la Libreria IBS di Padova
[Marta Celio] Ho letto e riletto il libro di Stefania, e mi verrebbero da dire tante cose. Ma preferirei fosse lei a parlare. Sottolineo ciò che in esergo, tramite una frase di Gide, Stefania ci dice: “le cose più belle sono quelle che la follia ispira e la ragione scrive”. Dunque c’è una vicinanza tra la ragione e la follia. Stefania si è raccontata attraverso passaggi dolorosi (quelli raccolti ne “La diaspora dei pezzi”), attraverso sketch umoristici e malinconici (come ne “Le mie donne”), oppure attraverso una consapevolezza assai dura (come ne “L'eccitazione dei sensi” e “Agli arresti”, narrando in quest’ultimo l'esperienza del reparto dopo la nascita dei figli). Nonostante la malattia, Stefania è riuscita a realizzarsi come donna, dunque ha fatto un buon percorso. Il suo è un libro che colpisce non solo perché dà speranza a chi è vittima del disturbo mentale, ma anche perché trasmette il senso di un'intelligenza sottile, che riesce a lavorare insieme all'ironia e a far emergere il sorriso anche dove ci sarebbero le lacrime. [...]
[Dal pubblico] Ho apprezzato che i pensieri sciolti occupino un'intera pagina, perché il foglio bianco suggerisce che bisogna riflettere. Il tutto mi è piaciuto molto, un tutto non sempre esplicito, che lascia al lettore il compito di interpretare, di pensare, di mettersi in contatto con Stefania. Penso che la scelta editoriale sia sapiente e adatta al contenuto.
L'intervento dell'editore è stato importante. Il manoscritto che gli avevo inviato non era fatto così. I pezzi erano gli stessi ma erano organizzati diversamente. Il libro cominciava con un brano che descriveva un quadretto di pace domestica turbato dal mio stato depressivo. L'editore ed io abbiamo pensato che non fosse efficace e abbiamo deciso di cominciare in maniera prorompente, con il brano sul cervello che va in pezzi, pensando che un simile inizio potesse cogliere maggiormente l'attenzione del lettore e invogliarlo a continuare a esplorare il libro.
[Dal pubblico] Ho sentito che hai parlato di psicoterapia. Ho un figlio che deve scegliere se farla o no. Lui dice che non porta alcun beneficio... Dice che si sente un po' meglio solo durante le sedute. Si parla tanto bene della terapia cognitivo-comportamentale. Approfitto per chiedere il tuo parere.
Ho fatto una psicoterapia psicodinamica, quindi non posso riferire le mie impressioni sulla cognitivo-comportamentale. Penso che sia fondamentale il rapporto che si instaura con lo psicoterapeuta, ossia ci deve essere una buona intesa, fin da subito. A me la psicoterapia è servita. Tuttavia ho impiegato molto tempo per comprendere e apprezzare l’importanza del lavoro svolto. Attualmente non faccio psicoterapia perché si tratta di un percorso impegnativo. Essendo in una condizione felice, ho il timore che la psicoterapia possa turbarla.
[Marta Celio] In un passaggio a pagina 19, Stefania parla del fatto che i più "non osano pensare all'io come ad un insieme di parti" e considerano l'interezza dell'io come un dogma sacro. Più avanti continua dicendo: "è questa la condizione di certi malati di mente, i cui comportamenti bizzarri e disfunzionali non sono il risultato di uno squilibrio, bensì di un equilibrio tra frammenti di psiche sani e disorganizzati". Credo che questa sia una chiave di volta per reagire, sfruttando le parti sane per la ricerca di un equilibrio.
Ero in una condizione di malessere. Avevo elaborato in quel periodo una applicazione della teoria dell'equilibrio di Nash al caso del cervello diviso. Il motivo era che cercavo io stessa un equilibrio, un ordine, e disperatamente lottavo per questo. Mi sono arrovellata per parecchio tempo sulla questione dei giochi non cooperativi, più volte citati nel libro. Ho elaborato anche una teoria astrusa secondo la quale le unità di pensiero (o concetti semplici) prodotte sia da altre menti sia dalla mia, potevano, viaggiando nell’aria e trapassando la mia pelle in ambo i sensi, essere riflesse infinite volte da un sistema di specchi collocati dentro e fuori di me, ricombinandosi le une con le altre in gruppi costituiti da un numero finito di unità (concetti complessi). L'equazione alla quale sono arrivata dimostrava che, pur essendo le riflessioni infinite, le possibili combinazioni di unità di pensiero erano finite. Si è trattato di una balzana dimostrazione della limitatezza della mente umana. La necessità che mi muoveva era quella di rassicurare me stessa sul fatto che prima o poi la mia testa affollata di idee avrebbe trovato requie.
[Dal pubblico] Ho letto il libro, mi è piaciuto molto, è scritto veramente bene. È' scorrevole e si legge velocemente. Arrivata alla fine, mi sono resa conto di quanti non detti e di quante metafore contiene, perciò l'ho riletto ancora. Ciò che colpisce è la leggerezza nello scrivere, nonostante la drammaticità degli episodi raccontati. Mi ha colpito in maniera particolare, dopo l'episodio di Kennedy, il racconto sulla fontana. Spesso nel libro ci sono immagini di perfezione, di bellezza, che vengono infrante da un qualche evento negativo. Forse non bisogna porsi il problema di capire... ma mi piacerebbe sapere cosa significa la storia di A..
Si tratta di un racconto onirico, ispirato alla mia esperienza di autolesionismo. Mi ferivo con la lametta, quando avevo sedici anni. Nel brano si parla guarda caso di avambracci che stillano latte. Il latte - questa linfa vitale - è il mio sangue. C'è all'inizio un'immagine di perfezione che ben presto si decompone, va in sfacelo. Inutili sono i tentativi di riportare le cose all'armonia originaria. Per questo il racconto è inserito nel capitolo "La diaspora dei pezzi", dove vi sono incarnazioni dell'essere che vengono lacerate, finendo per essere divise in tante parti.
[Anna Gatti] Vorrei sapere che tipo di rapporto c'è tra la scrittura e la guarigione, e se stai scrivendo qualche altra cosa.
Io non saprei dire se la guarigione è scaturita dallo scrivere o se lo scrivere è scaturito dalla guarigione... Come è detto nella frase di Gide, è il sano di mente colui che ha facoltà di comporre le visioni malate in un racconto strutturato, razionale, che può essere fruibile da parte di tutti. Sì, ho scritto altro, che non tratta di malattia mentale. Ho materiale sufficiente per un nuovo volume, ma per il momento mi dedico alla promozione di questo.
[Dal pubblico] Secondo la tua esperienza, c'è un fattore scatenante in queste patologie? E poi, quali sono i sintomi che hai vissuto?
La prima depressione l'ho sperimentata a sei anni. Non ho memoria di fattori scatenanti associati a quell'episodio, che per fortuna è durato pochissimo. In altre parole, non saprei dire - visto che quella è stata la depressione originaria - se mi fosse capitato qualcosa di spiacevole o no. Più avanti negli anni, la depressione si è manifestata al termine di periodi pregnanti della vita (dopo la nascita del mio secondogenito, dopo la nascita della mia primogenita, dopo la laurea...). Quanto ai sintomi, la mia depressione si annuncia con una fitta lancinante. Non ci sono prodromi: precipito improvvisamente in un abisso di dolore. Dapprima reagisco divenendo addirittura iperattiva, nel tentativo di compensare la forte angoscia. Ma dopo poco le energie vengono meno e cado in una sorta di stato catatonico. Quando sono stata ricoverata, dopo la nascita del mio secondogenito, non mi muovevo più e avevo le estremità contratte. Mio marito ha chiamato l'ambulanza credendo che avessi preso troppe pillole. Ho poi vissuto varie fasi psicotiche, i cui sintomi sono stati la sospettosità , l'umore patibolare e le dispercezioni visive ed uditive. C'è stato fu un periodo - è scritto anche nel libro - in cui ero tormentata dal fantasma di Evita Peron.
[Anna Gatti] Tra l'altro questo episodio riesci a descriverlo in maniera molto divertente...
Evita era perennemente dietro lo stipite della porta... Sono stata costretta a frequentare il centro diurno per un periodo piuttosto lungo, perché non riuscivo ad andare a lavorare e in casa da sola (i bimbi andavano a scuola, mio marito in cantiere) non potevo starci. Devo dire che la psichiatra che mi segue, ferma restando la diagnosi di personalità borderline, mi colloca a metà strada tra un disturbo bipolare e un disturbo schizoaffettivo; questo perché i miei stati psicotici non si accompagnano necessariamente con un aumento del tono dell'umore. Ma, in fin dei conti, una diagnosi che spacchi il capello in quattro non esiste.
[Dal pubblico] La questione è se si ricorre alla scrittura per scaricare una pulsione ingovernabile, un grande malessere, oppure se alla scrittura si arriva quando la sofferenza è superata. Io credo di essere uno dei milioni di individui apparentemente normali, che cova dentro di sé le proprie ansie. Il mio terapeuta privato sono stati i miei quaderni - non pubblicabili, destinati a essere bruciati, ma che mi hanno salvato, permettendomi di arrivare a essere vecchio senza commettere gesti estremi. Le pulsioni che spingono a rifiutare il mondo, a sentirsi inadeguati sono violentissime. Quello di tagliarsi è forse il gesto meno drammatico, salvifico in qualche modo. Ci si taglia per non buttarsi dalla finestra. Il dramma vero è quando si sente che la propria vita non vale più niente. Allora prendere un pezzo di carta e scrivere costa veramente poco. Quando incrocio esperienze di amici che hanno scritto prima o durante esperienze di grande turbamento, mi interrogo sempre se il fatto di entrare in comunicazione con l'alter ego che si trova dentro di noi non possa dare una mano a renderci conto del nostro gironzolare nel labirinto dell'esistenza, dandogli un senso. Anche noi abbiamo i nostri droni che ci sorvolano dall'alto, e forse possono darci una rappresentazione meno disastrata della nostra vita. Mi pare invece di capire che tu hai cominciato a scrivere quando hai sentito di aver superato la crisi.
Nella mia esperienza personale posso distinguere due fasi, una prima fase di espulsione, che si è verificata durante il lavoro di psicoterapia di cui ho parlato prima, e una successiva fase di rielaborazione, che si è verificata recentemente. L'espulsione è avvenuta anni fa, quando stavo male, mentre la rielaborazione è avvenuta una volta raggiunto l'equilibrio.
[Dal pubblico] Vorrei farti una domanda. Non rispondere se vuoi. Hai mai pensato che questi tuoi problemi risalgano a quando eri bambina? Che siano riconducibili a qualcosa di inconscio che poi è venuto fuori? Ho avuto parecchi ricoveri in psichiatria, alcuni dei quali alcol correlati, altri no. Sviluppavo forme ansiose importanti, come ad esempio attacchi di panico. Ho trovato nella psichiatria un metodo davvero distruttivo, non un processo di guarigione, bensì di squalificazione. Mi ritrovo molto in quello che dici, vedo che sei una persona che ha sofferto.
Come si può leggere un po' ovunque, esistono una componente organica e una componente ambientale. Nel mio caso, ci sono stati durante l'adolescenza periodi difficili in seguito ai quali ho cominciato a farmi del male. Nell'età adulta, invece, le crisi non sono state innescate da fatti negativi, almeno in apparenza. Ad esempio, quando è nato il mio secondogenito ero felicissima, perché il parto era andato bene e il bambino era sano. Non so cosa sia successo, ma tornata dall'ospedale, appena messo piede in casa, mi è crollato il mondo addosso.
[Marta Celio] Durante la gestazione hai dovuto interrompere la cura farmacologica?
All'epoca non mi curavo. Neppure da ragazzina sono stata curata. Quando mi prendeva questa atroce sofferenza che durava mesi, non sapevo neppure cosa mi capitasse. Probabilmente si trattava di fasi miste, più che di fasi depressive franche, perché mi sentivo come illuminata, l'unica sulla Terra ad aver intuito quanto devastante fosse il nulla che minacciava la specie umana. Percepivo questa come una rivelazione, e avevo il timore che parlandone agli altri avrei potuto sconvolgerli, contagiarli col mio profondo, insostenibile malessere.
[Marta Celio] Questa è purtroppo un'esperienza che si vive durante la malattia. Ci terrei a spezzare una lancia a favore della psichiatria, che non ingabbia. Semmai è la malattia che ingabbia.
[Dal pubblico] Mi chiedo che funzione abbia l'interpretazione nel libro di Stefania. Penso all'episodio delle bolle di sapone e alla interpretazione secondo la quale Stefania avrebbe dovuto rispondere alla figlia in modo diverso da come ha risposto. Tutti siamo portati a interpretare continuamente. Mi chiedo tuttavia se in una situazione di grande sofferenza l'interpretazione non serva proprio a lenire il dolore, ad aiutare.
[Dal pubblico] Mi ha colpito che tu abbia detto che già da bimba hai avuto quel che chiami depressione. Quando l'hai vissuta non sapevi nemmeno quale nome darle. Però avvertivi il malessere. La depressione, come dici tu, si manifesta soprattutto nei momenti di passaggio. Non hai mai pensato a un percorso psicoanalitico che potesse portare alla luce il trauma? Probabilmente quando la depressione si ripete... se esiste un trauma, che naturalmente può essere stato rimosso, perché non portarlo alla luce? Un'altra domanda: parli di rimuginare, di questo pensiero autoreferenziale che si avvita su se stesso. Secondo te, nel mondo occidentale, questi disturbi, che hanno senz'altro anche un'origine genetica, sono incrementati da certi aspetti sociali? Pensi che ci sia una componente sociale nella crescita di questi disturbi nel nostro occidente?
Faccio il mio caso specifico. Non credo ci sia stato un solo trauma, ma tanti microtraumi, risalire ai quali è impossibile, poiché può essersi trattato di inezie. Io credo alle teorie secondo cui gli attacchi di panico e le depressioni sono legate all'attività di certe zone antiche nel nostro cervello, come l'amigdala. Quando gli uomini primitivi, in epoca preistorica, vivevano in piccoli gruppi ed erano esposti a innumerevoli rischi, tra cui quello dei grossi predatori, l'incolumità dei piccoli era legata all'addestramento che gli adulti impartivano loro. Per i piccoli, in un simile contesto, il sentimento di inadeguatezza legato all'ammonizione dell'adulto si associava al rischio della vita. Credo che fin da bambina la mia amigdala abbia dato una risposta eccessiva di fronte a certe forme di frustrazione, tanto da causare una paura della morte ancestrale e indomabile. La depressione endogena potrebbe originare da questo, cioè dallo sgomento legato ad una sensazione di forte pericolo (immaginario). La prima depressione sperimentata da bambina potrebbe non essere imputabile ad un solo trauma, ma ad una costellazione di situazioni nelle quali mi sono sentita inadeguata. In seguito, questi microtraumi potrebbero aver fatto da punti di accumulazione, attorno ai quali si sono formate concrezioni di disagio e dolore che, strato su strato, hanno portato alla crisi. Quanto all'aspetto sociale, si tratta di una domanda molto impegnativa... ma credo che la discriminante sia il dolore. Al di là delle componenti legate alla società attuale, che sicuramente esistono, quel che conta è il dolore. Se il dolore è insostenibile è giusto curarlo, ed è lì che possiamo probabilmente collocare il punto di inizio della malattia.
[Dal pubblico] In chiusura, vorrei sottolineare il valore della scrittura. Abbiamo parlato soprattutto del tema della malattia mentale, ma secondo me vi è nel libro un valore di sensibilità e di capacità di esprimersi molto importante. Il libro è valido per tutti, problemi o no.