30 gennaio 2016

A cura di Carmelo Licitra Rosa, Paolo Carnevale e Anna Natalia - evento organizzato dall'Associazione culturale "Anagni Viva" presso La Biblioteca Comunale di Anagni (Fr)

[Carmelo Licitra Rosa] Sono contento di essere qui con voi e con Stefania Laurora. Devo dire che considero questa come una circostanza assai particolare poiché, pur essendo abituato a discorrere di questi argomenti in diversi ambiti, è una delle rare volte in cui mi trovo direttamente a fianco all'autore di un libro che merita di essere annoverato in un filone letterario ben preciso, ovvero quello degli scritti che portano testimonianza di una sofferenza psichica attuale o pregressa. In questo filone, cito, ad esempio, “Memorie di un malato di nervi” di Daniel Paul Schreber, che risale ai primi del secolo; oppure “Mia madre musicista è morta” di Louis Wolfson, che è più recente. Altra degna di menzione è un'autrice americana, Temple Grandin, che ha scritto diversi libri incentrati sulla sua personale esperienza di autismo.
Ho apprezzato molto il libro di Stefania Laurora - oltre che per la scrittura, elegante ed efficace - perché ha il pregio di compendiare in modo sintetico i quattro problemi da sempre sollevati dalla sofferenza psichica.
Il primo problema è quello scientifico - ma direi anche prescientifico - che l'uomo che vive sotto il logos si pone, ovvero di classificare la sofferenza psichica.
Il secondo problema che non solo dal libro, ma anche dalle parole di Stefania Laurora emerge molto chiaramente, è che lì dove c'è sofferenza psichica, c'è sempre una particolarità di rapporto con la persona chiamata a prendersi cura del paziente. 
Il terzo problema che la sofferenza psichica solleva è quello della contenzione e dell'istituzione, ed è anch’esso molto antico.
Il quarto problema è il trattamento attraverso prodotti chimici in grado di incidere sullo sviluppo della malattia.
Mi accingo ora entrare nel merito della discussione vera e propria sulla natura della malattia mentale. Comincio col dire che noi siamo certamente organismi animali. Tuttavia c'è uno iato che gli animali non possono attraversare, e che ci rende creature affatto riconducibili al paradigma animale. Abitiamo un al di là che fa di noi animali azzoppati, animali malati, tutti quanti. Questo al di là ha un nome e si chiama linguaggio.
Il nostro peccato mortale è di essere animali parlanti. Il linguaggio, a cui l'essere umano deve i prodigi della sua condizione, è anche il verme che lo corrompe. Siamo pervasi, dunque, da una follia generalizzata, poiché il linguaggio, che tutti adoperiamo, è una struttura che ha la maledizione di essere bucata.
La gran parte di noi ha la fortuna, o la sfortuna, di avere una soluzione pret-à-porter per fare i conti con questo buco. Una soluzione che da una parte ci fa essere un po' più stupidi, ma dall’altra ci fa vivere in quella che noi chiamiamo normalità. È la normalità che ci tiene al di qua della soglia che invece viene oltrepassata da chi, per un fatto puramente congiunturale, non ha a disposizione il medesimo servomeccanismo.
Quindi, possiamo dire che colui che chiamiamo, a seconda della psicosi, schizofrenico, bipolare, eccetera, non è più matto di noi, ma è sprovvisto di questo servomeccanismo. Ciò, da una parte, fa sì che l'esperienza della psicosi sia più originale, più viva, più libera. Ma ovviamente lo psicotico paga un prezzo. L'allucinazione, l’ipersensibilità, l'autolesionismo, cosa sono se non tentativi del soggetto, che ne è sprovvisto, di crearsi un filtro rispetto al buco?
Un libro come quello di Stefania Laurora, ma anche le invenzioni più grandi dell'umanità, le dobbiamo ai nostri fratelli i quali hanno avuto la fortuna, o la sfortuna, di non avere questo rapporto filtrato col buco. Lo sforzo sovrumano, al quale molti di loro finiscono per soccombere, di far fronte all’intollerabile, se unito alla genialità, può tradursi in effetti di invenzione di cui beneficiamo tutti. Faccio un esempio: la formula della gravitazione, che è agli albori degli sviluppi vertiginosi della scienza moderna, è il prodotto di una mente folle. Isaac Newton sprofondò chiaramente nella follia dopo la scoperta della formula della gravità. Pochi sanno che finì i suoi giorni interessandosi alla cabala, al libro di Daniele e alle alchimie, e che sviluppò un delirio durante il quale tentò di dimostrare l'inesistenza scritturale della dottrina trinitaria e concluse di essere il figlio di Dio redivivo. Potrei citare un caso ancora più scottante, ovvero quello di Jean-Jacques Rousseau, che era un chiaro paranoico. Eppure a lui siamo debitori di formule che rappresentano l'avamposto della pedagogia moderna. E come dimenticare il grande Alan Turing? O Kurt Goedel?
La sofferenza mentale è parte integrante della struttura umana. Perciò, mi piace concludere questo intervento dando la parola a Jacques Lacan, traendo spunto da un suo scritto intitolato “Discorso sulla causalità psichica”: “Lungi dunque dall'essere il fatto contingente delle fragilità del suo organismo, la follia è la virtualità permanente di una faglia aperta nella sua essenza. Lungi dall'essere per la libertà un “insulto”, ne è la più fedele compagna, ne segue il movimento come un'ombra. E l'essere dell'uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l'essere dell'uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà.”

[Anna Natalia] Ringrazio il professor Licitra per questo affascinante excursus nel processo di sviluppo della conoscenza di noi stessi. Lo ringrazio anche perché, nella sua analisi piena di fascino, non ha mai trascurato il riferimento specifico al libro di Stefania Laurora. Ciò è estremamente importante, poiché credo ci offra la possibilità di un discorso teorico di qualità, che però non prescinde dall'attenzione a un'esperienza che ha un potenziale di approfondimento valido per lo studioso, per il paziente e per tutti noi. Dico tutti noi, perché la condizione umana porta con sé una terribile condanna ad essere oscillanti tra un'aspirazione metafisica superiore e una realtà dalla quale ugualmente non possiamo prescindere.

[Paolo Carnevale] A proposito dell'ultima fase dell'intervento del professor Licitra, mi è venuto in mente un passaggio che si trova nelle pagine finali de “La coscienza di Zeno”, dove Zeno dice: “La vita umana è inquinata alle radici”.
Il tema della follia nella letteratura richiederebbe molto tempo per essere sviluppato. L'età classica vive dell'idea per cui la follia è una forma di superamento della normalità e quasi di esaltazione mistica. Erasmo da Rotterdam ci dice che la follia è qualcosa da elogiare. Chiunque abbia letto “La carriola” di Luigi Pirandello sa che la follia è considerata come una scappatoia rispetto alla realtà.
Il libro di Stefania gioca su almeno due registri. C'è innanzitutto una fase lirica intensa e personale, nella quale l’autrice utilizza uno stile quasi paratattico, lasciandosi andare alla proliferazione delle emozioni. In questo registro è scritto l’incipit, che contiene il riferimento storico all'assassinio di J.F. Kennedy, in cui un pezzo di calotta cranica divelto dalla testa del protagonista diviene metafora della mente che si disgrega. Questo stesso registro è adoperato in altri brani. Ad esempio, in uno dei brevi racconti, le ammaccature di alcune auto vengono descritte come qualcosa di urticante e profondamente fastidioso.
C'è poi il registro narrativo, che ho letto come una discesa negli inferi della follia, eccezion fatta per la postfazione, che conclude con un provvidenziale lieto fine.
Ciò che mi ha incuriosito è l’ambivalenza del rapporto con le figure degli psichiatri e degli psicoterapeuti e con l’istituzione ospedaliera. Ci sono a volte accessi positivi e a volte accessi negativi. L'idea stessa della follia oscilla da una visione romantica, in cui c’è una rivendicazione molto orgogliosa dell’essere diversi, dell’essere superiori alla media, a una visione molto cruda e negativa, in cui si descrive la necessità di ricorrere alla medicina per lenire una sofferenza estrema.
In special modo vorrei sapere da Stefania Laurora qualcosa di più sull’ambivalenza del rapporto con l’istituzione ospedaliera.
[Stefania Laurora] Nella malattia sperimento due fasi distinte, ovvero una fase depressiva e una fase maniacale o mista, durante la quale divengo angosciata, agitata, sospettosa. Quando sono depressa, vedo l’istituzione ospedaliera come un rifugio. Viceversa, quando sono paranoica la vedo come una costrizione e un sopruso. Nel libro, perciò, sono rappresentate entrambe queste polarità. Similmente, l'idea eroica della follia si lega alle fasi alte, mentre nelle fasi basse c'è una cupa rassegnazione alla malattia.

[Paolo Carnevale] Proprio nella parte finale, dove c'è una scrittura da flusso di coscienza, mi interesserebbe sapere che tipo di rapporto c'è - se c'è - tra una situazione familiare che può essere stata più o meno buona e l'insorgere della malattia.
[Stefania Laurora] Questa è una domanda che spesso mi sono posta. Ho avuto i primi sintomi depressivi quando ero molto piccola e non ricordo che associato ad essi vi fosse stato alcun episodio traumatico. Più avanti la mia famiglia ha avuto traversie varie, e i miei genitori si sono divisi. Ma io ero stata male già prima, quando ancora non vi era sentore di questa divisione. Mi dico quindi che probabilmente vi era un nucleo, un malessere innato in me, attorno al quale si sono create concrezioni dovute alle vicende della vita, quelle che capitano a tutti.

[Carmelo Licitra Rosa] È perfettamente così. Si tende - com'è giusto che sia nella quotidianità - a creare legami fra gli accadimenti del vivere e la malattia. Si tende a dire: "I miei genitori si sono separati e di conseguenza io sono depresso". Ma si tratta di una consecutio sempre fittizia. Stefania Laurora tocca la verità quando dice: “Inspiegabilmente sento che ripercorrendo la mia vita, tornando indietro, ho incontrato questo buio in un tempo molto remoto, e sento che mi è apparso in modo inspiegabile, disgiunto da eventi della vita”. Quindi si crea una sorta di nucleo che funge, come nell'ostrica, da elemento di concrezione per la perla.

[Dal pubblico] Tutti quanti, dunque, abbiamo una malattia mentale latente, poiché siamo avvolti nel linguaggio. Alcuni, però, riescono a trovare una via di fuga. Mi piacerebbe capire bene qual è questa via di fuga.

[Dal pubblico] Vorrei fare non dei generici, ma dei sentiti complimenti all'autrice, perché credo che al di là della sua esperienza personale, ci abbia insegnato che la libertà recuperata passa attraverso la capacità di giudizio, che noi spesso mistifichiamo con un generico star bene, adattandoci alle situazioni, oppure facendo una abile rimozione di tutto ciò che ci crea disagio. È come se lei ci avesse indicato un metodo infallibile, che è quello della consapevolezza. Al professore vorrei chiedere: se il linguaggio è questo peccato mortale, che crea il discrimine, come facciamo a recuperare quella dimensione che da Freud in poi dà la parola al malato e lo rende partecipe del percorso di liberazione dalla patologia stessa?

[Carmelo Licitra Rosa] Cosa vuol dire che il linguaggio ammala? Una risposta soddisfacente a questa domanda può essere formulata a partire da un concetto che si è fatto progressivamente strada negli ambienti antropologici, ovvero quello della dicotomia tra natura e cultura. Cosa l'antropologia è venuta ad asseverare? Che nella realtà umana non vi è nulla di naturale. Questo è un punto acquisito. Noi uomini viviamo in un mondo culturalizzato.
Quando pensiamo al linguaggio, non dobbiamo pensare ipso facto al solo aspetto della parola comunicativa. Dobbiamo pensare, piuttosto, a un sistema dotato di regole logiche e matematizzabili. Tali regole non hanno nulla a che vedere con quelle a cui soggiace il leone nella savana, che sono regole naturali. Le regole naturali sono estremamente precise. Gli animali, infatti, mangiano e si accoppiano secondo quanto prescrive loro l’istinto, al contrario di noi uomini, che siamo senza misura. Basta, quindi, mettere a confronto i grandi campi dell'antropologia e dell'etologia per rendersi conto che l'esperienza umana ha qualcosa di radicalmente snaturato, dove per snaturato si intende il fatto che essa risponde a un sistema di regole che appartengono a un altro ordine da quello naturale.
Oggi un fisico o un matematico sa perfettamente - perché si tratta di un dato incontestabile - che qualunque sistema di linguaggio logico-matematico contiene al proprio interno un buco. I teoremi Goedel lo dimostrano. Va da sé che, essendo noi organismi animali colonizzati dal linguaggio, siamo anche organismi abitati dal buco, dal buco di Goedel, che trapiantato nella nostra esperienza diventa il buco della follia.
Fare esperienza terrificante del buco della follia significa essere convinti che Evita Peron ci perseguiti, avere nelle orecchie una voce che ci dice di buttarci giù dal balcone, doverci procurare delle lesioni per cercare di calmarci. Normalmente, quella che preserva da questa esperienza drammatica è la funzione paterna. Se un padre gioca bene la sua partita, permette un arrangiamento degli elementi della giostra dell’esistenza tale, che uno di questi va a coprire fittiziamente il buco, consentendoci di fare finta che non esista e contribuendo a farci diventare dei nevrotici alla Zeno.
L’itinerario di vita del nevrotico potrà pure essere una avventura poco esaltante, ma certamente non lo porterà a vedere una natura improvvisamente animata, colorata, piena di sensazioni dalle qualità incandescenti.
Allora cosa facciamo, eradichiamo il linguaggio? No, perché noi veniamo alla luce in un bagno di linguaggio. Tuttavia, se esso è la nostra condanna, è anche la chance per trovare una forma di equilibrio. Nel caso dello psicotico, il percorso di ricerca della verità è analogo a quello del nevrotico, con la differenza che lo psicotico deve essere più pratico. Mentre il nevrotico può permettersi di essere speculativo, lo psicotico ha il problema scottante di trovare un turacciolo suppletivo, visto che quello di dotazione non c'è. Penso che il libro di Stefania Laurora sia un tentativo di formazione del turacciolo. Lo vedo e lo leggo così, perché la scrittura è un elemento elettivo di formazione supplementare di questa copertura del buco, che avviene attraverso il contesto della psicoterapia. Stefania, infatti, va dalla psicoterapeuta, con cui ha un rapporto ambivalente, mette in atto la parola e ricerca la verità, che produce la scrittura. Per inciso, il più geniale tra gli scrittori che hanno creato un turacciolo con cui si sono tenuti per tutta la vita al di qua della follia è James Joyce, che arriva, nel suo sforzo titanico, a cambiare i connotati e i fondamenti della letteratura.